Mi spiego.
Sto leggendo questo libro:
SUL SENTIERO DI GUERRA
Scritti e testimonianze degli Indiani d'America
a.c. di C. Hamilton
La storia dei nativi americani è una passione che coltiva da molti anni il K., a cui si è avvicinato molto l'Uno e dunque mi sono cimentata.
Questo libro racconta la loro vita. Le regole della tribù, i giochi da bambini (il gioco del 'far finta di essere un bianco' con le corteccie di betulle a simulare il cotone), la caccia al bisonte, la religione, i cavalli...
E' molto scorrevole, piacevole e divertente a tratti nel constatare come gli indiani di prateria e quelli di bosco fossero stati diversi, un po' come l'uomo bianco di campagna e di città.
E me, non so perché ha incuriosito molto l'aspetto della caccia e dell'utensileria. Loro, così a impatto zero, per usare un termine del nuovo millennio.
Gli animali erano sacri e più erano feroci e più si veneravano: lupi, orsi, bufali.
Il passo dell'uomo verso la maturità passava dall'uccisione del bufalo. Una volta ucciso il sangue veniva versato nella terra per ringraziarla, le ossa venivano usate per le armi e i coltelli, i tendini venivano usati come spaghi per cucire e pescare.
E mentre si portava al tipì la preda, si ringraziavano gli dei della natura.
Cosa accade mentre leggo questo libro?
Una proposta per l'Uno: un laboratorio di archeologia sperimentale. Uso del fuoco, utilizzo degli arnesi di caccia, pittura rupestre... A seguire un laboratorio per i grandi con preparazione del fuoco, macellazione attraverso la selce, utilizzo dei tendini e infine creazione di un ago.
Oggi mi chiamano dicendomi che tutto è annullato. Il sindaco ha procrastinato l'evento. I naturalisti (?) insorti tramite FB hanno urlato all'orrore.
Sono rimasta sbalordita per due cose.
La prima, e lo dico da compagna di un vegetariano, è per lo scollamento che noto in queste prese di posizione nette, totalmente antidemocratiche e violente che noto in alcuni e sottolineo alcuni animalisti.
Avevo a suo tempo parlato del Dilemma dell'onnivoro in cui in sostanza si dice che mangiamo troppa carne e lottiamo perché non se ne mangi più in modo ugualmente distorto. Abbiamo perso il senso dell'odore della carne, non ci ricordiamo più che i muscoli grondano sangue perché l'industria ce li ha ripuliti. Ma allo stesso tempo siamo cittadini che vedono l'animale come un idolo isolato e lontano.
Lo so, animalisti, che non siete tutti così, ma a volte ho l'impressione che certe prese di posizione siano ideologiche.
Rimettere le mani nel sangue, come facevano gli indiani, ci riporta ad una sacralità. Non si vede l'animale solo come fonte di cibo, ma si riscopre un atteggiamento di riverenza che è quello che anche nei confronti delle piante, a noi manca.
E in secondo luogo ho l'impressione che qui da noi smuova più un animale macellato che un festino di politicanti con le maschere di maiale in testa. E questo, davvero, lo trovo incredibile.
Finisco con una citazione del libro che non si può non condividere:
V'era una grande differenza nell'atteggiamento degli indiani da una parte e dei caucasici dall'altra, verso la natura: una differenza consistente nel fatto che gli uni erano portati a conservare, e gli altri a distruggere la vita. L'indiano, non meno di tutti gli altri esseri che nascono e crescono, era nutrito dalla madre di tutti, la Madre Terra. Egli si sentiva quindi consanguineo di tutte le cose viventi e concedeva a tutte le creature i suoi stessi diritti. Ogni cosa, sulla faccia della terra, era oggetto di amore e di rispetto. La filosofia del caucasico, invece, era questa: "Le cose sulla terra sono terrene," cose dunque da tenere in non cale e da disprezzare.